Per chi non ha tempo di concedersi tempo, in un corso che lo impegni per mesi, ma ha grande desiderio e bisogno di dare una regolata al suo Sistema Neurovegetativo e di dire basta a tutti i disturbi dovuti allo Stress, propongo un Week-End intensivo, in cui apprendere Tecniche di Rilassamento, sulla traccia degli insegnamenti di Shultz: Training Autogeno, Respirazione, Visualizzazioni ci accompagneranno in un viaggio nella scoperta della nostra psicosomatica.
Corso teorico-esperienziale, in cui ritrovare la quiete e acquisire strumenti per portarsela via.
Il Corso sarà attivato al raggiungimento di un minimo di 8 partecipanti. Il dettaglio delle giornate sarà fornito a chi ne farà richiesta.
Costo del Corso: € 175.00. Possibilità di pernottamento e pasti presso la struttura stessa, ai costi convenzionati.
Se sei interessato contattami già da ora. È necessario ISCRIVERSI ENTRO il 30 aprile 2019 (l’iscrizione si intende effettuata ad avvenuta compilazione dei moduli di registrazione e versamento della caparra di € 50).
Contatti: Sara Gonano, Dottoressa in Scienze Psicologiche dello sviluppo e dell’educazione e in Terapie neuropsicomotorie dell’età evolutiva, Operatore in Training Autogeno e Tecniche di Rilassamento Cell: 3494709530 E-mail: saragonano@gmail.com Sito web: http://saragonano.com
Premessa. L’intento della Rubrica PsicoPillole, è quello di offrire piccoli spunti di riflessione e informazione nell’ottica della psicoeducazione (vedi Psico-Pillole). Perciò troverai qui solo i principi generali sull’argomento considerato, in modo tale da non appesantire l’articolo. Chiunque fosse poi interessato ad approfondire uno degli aspetti, può chiederlo sia in privato che suggerendo un altro articolo specifico, dando occasione anche ad altri di sviluppare l’argomento.
A chi non è mai capitato di essersi riproposto più volte di non reagire davanti a determinate situazione e poi… BOOM, appena ci siamo trovati davanti al fatto o alla persona con cui NON volevamo reagire, siamo esplosi come se non potessimo fare nulla per fermare lo scoppio. Noi per primi siamo rimasti mortificati, perché tutt’ora non riusciamo a spiegarci da dove siano uscite le parole che abbiamo pronunciato e perché siano uscite.
Le teorie più classiche parlano di “sopravvento” della nostra parte bambina su quella adulta e razionale, ma gli ultimi studi, resi possibili dai progressi della neuroimmagine, ci offrono un quadro più completo dei processi che avvengono anche a livello cerebrale, non solo mentale, e questo ci apre un nuovo quadro di spiegazioni.
In parole più povere possibili, si è evidenziato che in questi casi siamo guidati, nelle nostre reazioni, da quella stessa via neurale che si attiva quando ci troviamo in pericolo.
Normalmente abbiamo due strade nel cervello per rispondere alle emergenze:
Una via “bassa”, in comune con tutti gli esseri viventi, che risponde velocemente, senza valutazione e ragionamento, a ciò che pare essere un pericolo. La risposta può essere solo di due tipi: attacca o fuggi. Il luogo fisico di questa via è in profondità nel cervello, quella via che funziona dalla nascita, quella che conserva memorie di eventi pericolosi e si attiva in automatico.
Una via “alta”, razionale, che ha sede fisica nella corteccia cerebrale, la parte solo umana del cervello, quella che finisce di maturare verso i 20 anni (quando diciamo ai ragazzi “ragiona prima di agire!”, chiediamo una cosa non completamente possibile!!), quella che valuta se il pericolo è reale e può decidere se far partire una reazione oppure no.
Quando ci “scappa” una reazione di rabbia non prevista e non voluta, la verità è che il nostro sistema “basso” ha valutato che quella situazione era per noi un pericolo per la vita e ha attivato la modalità “attacca”, prima ancora che la via “alta” potesse entrare in gioco.
Quello che dobbiamo dunque chiederci, non è perché mi arrabbio se non lo voglio (cosa che ci fa sentire “cattivi”), ma: QUALE PAURA E/O FERITA HA SVEGLIATO IN ME QUESTA SITUAZIONE?
E’ evidente che con questa consapevolezza si passa, nella nostra mente, ai nostri occhi, da “aggressori” a “vittime” (di ricordi ed esperienze passate), cominciando a liberarci da quei sensi di colpa che ci fanno ancor più arrabbiare, verso noi stessi questa volta. La conseguenza è smettere di punirci e cominciare a prendere coscienza, cura e compassione di ciò che abbiamo dentro e questo, probabilmente, porterà a poter controllare quei ricordi e le loro inattese espressioni. Vietarci di provare rabbia non porta che ad altra rabbia! Ascoltarci con pazienza porta a poterci guardare dentro cercando una via d’uscita e pacificazione.
Riassumendo: spesso la rabbia è dolore non espresso, è ingiustizia subita e mai riscattata….
Ti ci ritrovi? Ti capita?
Sperando di averti dato una piccola chiave di lettura in più…
Per comprendere meglio l’obiettivo di questa rubrica, pensiamo alla PREVENZIONE e ALL’ INDIPENDENZA.
Si tratta quindi di “INTERVENTO PSICOEDUCATIVO”.
Cos’è la “psicoeducazione”?
Non è un intervento scolastico, non è una terapia.
È fornire alle persone indicazioni e conoscenza, perché possano TROVARE DA SOLE la miglior strategia per risolvere il loro “problema”, prima che diventi necessario richiedere una terapia vera e propria.
Nel contesto della Psicoeducazione, lo specialista affianca e sostiene nella ricerca attiva, personale e responsabile.
I primi due temi saranno:
– Cosa accade nel nostro cervello quando ci arrabbiamo senza accorgercene. Perché accade anche se non lo vogliamo?
– Il nostro bambino ha difficoltà a scuola, eppure è intelligente e non ha disturbi di apprendimento. Abbiamo mai ipotizzato che non abbia problemi, ma che sia invece “troppo intelligente”?
Un’occasione unica per porre le domande che vuoi, o solo per ascoltare!
➡️LUNEDÌ 4 febbraio, 4 marzo, 1 aprile
➡️ Dalle ore 20.30 alle ore 22.30 circa.
➡️ Condurrà il DOTT. ANTONIO BERTON
( psicologo psicoterapeuta gruppoanalista, ipnologo esperto di sessuologia tipica e atipica).
➡️ Incontri a tema libero, possibile scelta dell’argomento da parte dei partecipanti.
⚠️ NECESSARIA ISCRIZIONE (entro il 15 gennaio): posti limitati. ⚠️ Per ulteriori informazioni contatta lo Studio.
✳️Contributo di partecipazione: €35 a serata. Se acquistate in pacchetto: €95
MEGLINSIEME
➡️ Da mercoledì 6 febbraio ➡️ dalle 16.30 alle 17.30 ➡️ Gruppo per bambini 6-9 ANNI, ➡️ Obiettivo: relazionarsi senza ansia, condividere le proprie paure, stare bene insieme agli altri. ➡️ Strumento di lavoro: gioco di ruolo, conoscenza delle emozioni..
Se pensi che il tuo bambino ne possa aver bisogno, chiedi informazioni 😊
⚠️ NECESSARIA ISCRIZIONE (entro il 15 gennaio): posti limitati.
⚠️ NECESSARIA ISCRIZIONE (entro il 15 febbraio): posti limitati.
✳️Contributo di partecipazione: €50 mensile
Corso progredito
➡️ Per chi ha già concluso il Corso Base e desidera proseguire, riprenderemo gli incontri
➡️lunedì 11 febbraio
➡️dalle 18.30 alle 20.00
⚠️ NECESSARIA ISCRIZIONE (entro il 15 gennaio): posti limitati.
✳️Contributo di partecipazione: €50 mensile
BEL PROBLEMA
➡️ A cavallo tra una scelta importante e l’inizio di una nuova scuola, AIUTARSI può essere necessario.
➡️ Per i ragazzi della TERZA classe delle secondarie di PRIMO grado e i ragazzi della PRIMA classe delle secondarie di SECONDO grado (13-15 anni)
➡️ Lavori di gruppo su temi proposti dall’adulto o scelti dai ragazzi, secondo le ultime direttive OMS per la promozione del benessere in adolescenza.
Problem-solving, brainstorming, sviluppo delle competenze socio-relazionali, resistenza alle pressioni del gruppo, autostima e assertività… Per accrescere la capacità di stare bene con sé stessi e con gli altri, collaborando nella risoluzione dei problemi.
➡️ da giovedì 7 febbraio
➡️ dalle 16.00 alle 17.00
⚠️ NECESSARIA ISCRIZIONE (entro il 15 gennaio): posti limitati.
✳️Contributo di partecipazione: €50 mensile
Per qualunque dubbio e per ulteriori informazioni contatta lo Studio
In uno dei commenti al precedente articolo sull’Autostima, una mamma (che ringrazio per la partecipazione attiva e per l’utilissimo spunto) chiede consigli pratici per i genitori, indicazioni per aiutare e sostenere i figli nel percorso di acquisizione di una conoscenza di sé realistica e serena. Ci ho pensato a lungo e ho trovato difficile individuare esempi concreti perché ogni situazione, ogni famiglia, ogni bambino è un caso diverso e quindi non esistono soluzioni a priori. E’ però certamente vero che ci sono linee di fondo che possono essere usate come “navigatore” sulla difficile strada del cercare ciò che è “meglio” nei vari momenti di vita.
Come abbiamo già detto in precedenza, il nucleo primario dell’Autostima viene costruito dall’individuo sulla base di ciò che l’adulto di riferimento gli rispecchia: un bambino
guardato con amore
accolto nei suoi bisogni profondi
ascoltato con attenzione
considerato come essere pensante e degno di stima fin da piccolo
accolto per ciò che è e non per ciò che si vorrebbe che fosse
….
ha già ottimi presupposti per crescere con una stima adeguata di sé. E’ come se il piccolo potesse dirsi: “Se coloro che amo mi amano, sono degno di amore e di stima, quindi valgo, quindi tutti mi possono stimare”. Questi atteggiamenti di fondo dovrebbero accompagnare il rapporto genitore-figlio per tutta la vita ed è ciò che io considero LA BUSSOLA. Quando non sappiamo che fare o rispondere, come madre o padre, prendiamo tempo, usiamo la Corteccia Prefrontale (la parte razionale-empatica del nostro cervello, quella parte che solo il mammifero umano ha sviluppato) anziché l’istinto di difesa e sopravvivenza (comune ad altre specie) e orientiamoci verso ciò che è “meglio” per la relazione (vedi anche “Parlare o Comunicare?” in Informazione e Formazione). E’ preferibile “mancare un colpo” nella situazione che chiudere la possibilità di dialogo e confronto con il bambino/ragazzo. Chi ha, o ha avuto, un figlio di tre anni o adolescente, comprenderà immediatamente ciò che sto dicendo: se questa bussola serve sempre, nella fase di separazione-individuazione dei 2-3 anni e in adolescenza è indispensabile (vedi anche “Adolescenza e..” in Informazione e Formazione).
La bussola è quindi un atteggiamento di ascolto e accoglienza che ci orienta nel dire e nel fare: sarà bene averlo sempre presente, perché incide profondamente nella costruzione del Sé del bambino.
Se la bussola è uguale per tutti, LA MAPPA è unica e irripetibile per ciascun individuo, e’ il percorso di vita di ognuno. Avere accanto genitori esperti del cammino e abili lettori di mappe, renderà il viaggio una meravigliosa esperienza anzicchè un pauroso percorso.
Innanzittutto, è necessario insegnare al bambino a leggere da solo la mappa! Ciò significa che sostituirci a lui nei suoi piccoli-grandi passi o lasciarlo solo nel compierli non sarà un aiuto efficace. Il compito del genitore è stare al fianco, stare al passo, consigliare ed educare, perché non permettere l’esperienza diretta non produrrebbe apprendimento. L’apprendimento emotivo è, si sa, la strada regale: “Non ti dico come fare, non lo faccio al posto tuo, ma lo faccio con te, mi emoziono con te, ti spiego le tue emozioni”. Il riconoscimento delle emozioni è dunque uno strumento prezioso di lettura della mappa: comprendere ciò che si prova aiuta a capire la direzione da scegliere nei bivi che incontriamo (sull’intelligenza emotiva, si potrebbero scrivere capitoli, ma non è questa la sede per farlo, dobbiamo piuttosto auspicare che questa consapevolezza entri sempre più nelle nostre case e nelle nostre scuole, come in molti contesti già sta accadendo).
Altra indicazione strategica è quella di segnarci sulla mappa dei luoghi di sosta e ristoro (dove fare il punto della situazione, da soli o aiutati da un esperto), di mete da raggiungere “prima che faccia buio”. Uscendo dalla metafora: sarebbe una buona cosa che i genitori potessero essere messi a conoscenza degli stili di attaccamento che offrono al figlio e sull’importanza di fornirgli una immagine di Sé (ciò che si è) che coincida con il Sé Ideale (ciò che si vuole diventare) e con i Sé Possibili (ciò che si può diventare) (vedi anche “Biancaneve, la Strega e lo Specchio” in Informazione e Formazione). Quando c’è coerenza tra queste tre parti del Sé vi sarà anche un individuo sereno, capace di affrontare salite e discese del percorso, attribuendole a fatti concreti e non alle proprie capacità (siano esse vissute in eccesso o in difetto).
Queste righe, dunque, vogliono essere solo un piccolo approfondimento di una traccia già abbozzata in L’AUTOSTIMA: la sua importanza e il guaio di averne poca o troppa.Se tutto ciò non fosse chiaro (è difficile semplificare senza banalizzare) o se desideraste scendere in esempi più concreti, contattatemi pure anche privatamente, o sfruttate le occasioni formative che trovate nei link dell’articolo.
Perché tu riceva notifica, pubblico le novitàanche nella sezione blog .
Questa proposta è per gennaio, ma inizio a comunicartela perchè tu possa fare le tue riflessioni in merito:
➡️ Da gennaio. ➡️ Un lunedì al mese, ore 21.00 — 22.30 circa. ➡️ Incontri a tema libero, possibile scelta dell’argomento da parte dei partecipanti. ➡️ Condurrà il dot. Antonio Berton (psicologo psicoterapeuta gruppoanalista ipnologo esperto di sessuologia tipica e atipica). ⚠️ Se può interessarti, chiedi pure informazioni. ⚠️ Posti limitati.
Un’occasione per sentire risposte proprio in merito alle tue domande (immagine dal Web)
Una buona definizione di autostima potrebbe essere: “la percezione realistica che un individuo ha di se stesso, del proprio valore intrinseco e delle proprie capacità”, è intimamente legata all’immagine di Sé, ed è un ingrediente fondamentale per una vita serena e libera. E’ una definizione che, per certi versi, potrebbe coincidere con il concetto di umiltà, intesa nella sua reale accezione: umile non è chi si ritrae e nega il proprio valore, ma chi ha piena consapevolezza di quanto vale e mette a frutto ciò che ha. Questa dimensione di auto-conoscenza e pieno utilizzo del proprio potenziale è ciò che dà all’individuo un senso di completezza e soddisfazione. Sappiamo tutti quanto sia frustrante essere limitati, o imporsi una limitazione, quando potremmo dire o dare molto di più.
Pertanto l’autostima è alla base della piena realizzazione della parte più intima del Sè ed è per questo che coltivarla fin da piccoli è il più prezioso dono che ci si possa fare.
In effetti, la maggior parte di noi soffre un po’ nell’autostima: sia che ne abbia poca sia che ne abbia troppa sta male e, a volte sorprendentemente, la sintomatologia si sovrappone. Ma da dove nasce l’autostima?
L’origine di questo tratto si può ricercare già nelle primissime ore di vita, si protrae nell’infanzia, ha una possibilità di rimodellamento in adolescenza, si struttura stabilmente in età adulta (in realtà è sempre possibile, a qualunque età, rimetterci mano, ma più le nostre idee in merito sono datate più è difficile cambiarle).
All’inizio dell’esistenza, sono fondamentalmente due le fonti che alimentano l’autostima: il parere di mamma e papà su di noi (o di chi ci è molto caro), e ciò che noi stessi constatiamo dei nostri successi, siano essi in ambito sociale o cognitivo.
E’ dunque molto importante che i genitori, i nonni, gli insegnanti rimandino al bambino una immagine coerente di ciò che lui è. Sminuire o lodare eccessivamente, ha lo stesso effetto: il bambino si sente incapace, e mette in memoria di esserlo. Piccoli troppo rimproverati o, all’estremo opposto, difesi ad oltranza, non potranno misurarsi fino in fondo con ciò che sono e non avranno occasione di provare le proprie capacità, tarandole sull’ambiente in cui vivono. Un bambino con un’autostima inadeguata potrà apparire sia timido sia arrogante, con attacchi di rabbia o di paura, a seconda delle circostanze piuttosto che del suo modo di essere: a questa età non è ancora ben definita la “valvola di sfogo” e il piccolo esprimerà il suo disagio nei modi più diversi.
In adolescenza si presenta la grande occasione di rivedere la propria immagine:
Immagini di sè realistiche sono alla base dell’autostima
se l’immagine di base è già autentica, il processo sarà piuttosto lineare e il ragazzo sceglierà amici a lui simili, che confermeranno quell’immagine.
se il Sé è carente potrà accadere che il ragazzo scelga compagnie che lo sottovaluteranno o che lo spingeranno a sovrastimarsi.
se l’idea di sé è troppo alta, probabilmente il ragazzo si circonderà di due tipi di persone: quelle che secondo lui gli sono pari oppure quelle con bassa autostima, che pur di essere accettate da qualcuno tollereranno un ruolo gregario; sia le prime che le seconde vengono generalmente scelte per ricevere lodi e mantenere l’immagine “grandiosa” del Sè. I giochi di intreccio tra alte e basse autostime sono qui evidenti. (se desideri approfondire, vedi: Ivana Matteucci, Comunicare la salute e promuovere il benessere. Franco Angeli Ed; Elena Cattelino, Rischi in adolescenza. Carocci Ed.)
La scuola è l’ente che ha la maggior possibilità di aiutare gli adolescenti, sia per la quantità di tempo che vi trascorrono, sia perché insegnanti attenti possono facilmente rendersi conto di dinamiche gruppali distorte. L’insegnante potrà dunque aiutare direttamente o sollecitare altri interventi. E’ quasi superfluo sottolineare quanto questo aspetto possa essere causale nel fenomeno del bullismo, sia per la vittima che per il bullo.
In età adulta, se la persona non è stata aiutata a modificare questa percezione alterata di se stessa, potrà andare incontro a problematiche importanti che coinvolgono anche chi le sta accanto.
Se l’autostima è carente, potranno evidenziarsi momenti depressivi, ritiri sociali, un non permettersi occasioni di incontro positive, gioiose e di confronto che favorirebbero l’emergere del valore dell’individuo. Non a caso, il sostegno tende a favorire un potenziamento individuale e invita a confrontarsi con la realtà temuta.
Se l’autostima è troppa, potremmo assistere a fenomeni di “bullismo” anche nell’adulto: sminuire gli altri, ritenerli inferiori, è una conseguenza abbastanza evidente. Spesso ne deriva comunque l’isolamento sociale, in questo caso più come conseguenza che come scelta. Ancora una volta il sostegno punta al confronto con la realtà e l’evidenza dei fatti.
Sia per carenza che per eccesso di autostima, quindi, il soggetto soffre e le persone che gli vivono accanto si sentono spesso impotenti davanti a questo soffrire. Per l’osservatore esterno, che coglie il vero valore del’altro, è difficile comprendere perchè questi non riesca a credere in se stesso, o ci creda troppo.
Volendo dare solo un’occhiata a dove potrebbe portare questo problema se arrivasse a punte estreme, possiamo considerare un quadro patologico particolarmente insidioso: il “disturbo narcisistico di personalità ”. Kring e colleghi lo definiscono così: “le persone affette da DNP hanno un’idea grandiosa di se stessi e delle proprie capacità,
Da “Psicologia Clinica”, Kring et al, Zanichelli ed.
fantasticano continuamente sui loro successi futuri, richiedono attenzione e ammirazione costante, sono invidiosi, hanno l’abitudine di approfittarsi degli altri e sono convinti di godere di speciali diritti, come se gli altri fossero tenuti a rendere loro favori del tutto particolari. Queste persone sono estremamente sensibili alle critiche e possono adirarsi quando gli altri non le ammirano… Quando interagiscono con gli altri il loro scopo primario è alimentare la loro autostima. Ma nel corso del tempo, finiscono per essere percepite negativamente. Se poi qualcuno fornisce prestazioni migliori delle loro in un compito rilevante per l’autositma, denigrano l’altra persona. Il loro interesse principale è vincere, non stabilire relazioni”. (Kring et al, Psicologia Clinica, Zanichelli Ed.). Chi ne soffre tende quindi (per mantenere inalterato lo status che si è mentalmente creato) a mentire, sia in privato che sui social, in merito a identità e competenze.
Questo è solo un esempio tra tanti di dove può portarci un’autostima lesa, sia in difetto che in eccesso, e ci fa ulteriormente comprendere quanto sia importante avere costantemente presente che essa è uno dei beni più preziosi. La salute e il benessere della persona e della società dipendono in buona parte da essa, ed è proprio la società (dal micrositema familiare al macrosistema ambientale) ad avere compiti e responsabilità in tal senso. Un po’ come dire: se vuoi stare bene, abbi cura della buona crescita e dello stare bene degli altri, soprattutto dei cuccioli della tua specie, dando loro un immagine riflessa realistica di quanto sono e quanto valgono.
Accade spesso che dopo una forte emozione ci ritroviamo stanchi e doloranti, non solo nell’intimo, ma anche nel corpo, sia a livello muscolare che viscerale. Come mai? Qual è la connessione? Vorrei provare a parlarne in modo molto semplice, perché sono convinta che capire i meccanismi del nostro funzionamento ci aiuti a gestirli e controllarli, per quanto possibile.
Iniziamo considerando quella miniera d’oro che è l’antica saggezza popolare. Sicuramente abbiamo sentito o usato frasi del tipo:
“Sono teso come una corda di violino”
“Ho i nervi a fior di pelle”
“Stringi i denti e vai avanti”
“Ho le spalle grosse”
“Mi hanno fatto venire un fegato così”
“Se non lo dico mi viene il gozzo”
E sono solo alcuni esempi, cui ciascuno di noi potrebbe aggiungerne molti altri. Pensandoci bene, quando usiamo queste espressioni, stiamo parlando di stati emotivi, eppure la metafora usa il corpo per esprimerli: è noto da sempre, quindi, che vi è una stretta correlazione tra mentale e fisico.
La relazione in termini scientifici di causa-effetto, è stata scoperta però da non molti decenni ed è ciò di cui si occupa principalmente la Psicosomatica. Sgomberiamo subito il campo dai pregiudizi: una malattia psicosomatica non è una malattia immaginaria né tanto meno una forma di conversione isterica. I disturbi che originano dagli stati interni, sono disturbi reali e da curare a tutti gli effetti, lì dove si manifestano nel corpo.
Come mai, dunque, accade ciò? Quale è la via fisica che trasforma i pensieri in contratture muscolari, gastriti, dolori? La risposta, come sempre, è multipla, ma ci focalizzeremo qui sul principale responsabile di questo fenomeno: il Sistema Nervoso Autonomo (SNA). Non mi soffermerò a descriverlo anatomicamente puntando invece su brevi riflessioni circa la sua fisiologia, sul come dovrebbe funzionare e su cosa accade quando la faccenda si inceppa.
Il SNA è costituito da due componenti, rispettivamente:
SNA Simpatico: si attiva quando siamo in stato di allerta, quando siamo davanti ad un pericolo, quando dobbiamo decidere se attaccare o fuggire (stato di eustress: stress “buono”, utile alla sopravvivenza). Allora il nostro corpo si prepara a queste possibilità reclutando la muscolatura, aumentando la gettata cardiaca e la respirazione, rallentando il flusso sanguigno a livello viscerale, dilatando le pupille e acutizzando l’udito… tutto è pronto, insomma, per reazioni veloci e potenti.
SNA Parasimpatico: si attiva per “spegnere” il SNA Simpatico e riportare l’organismo in quiete. I muscoli si rilassano, la circolazione si ripristina con battito cardiaco regolare e respirazione profonda, i sensi tornano a regime, gli organi interni riprendono il loro lavoro regolare… siamo in stato di recupero e ripristino.
Il guaio ha inizio quando viviamo in uno stato di stress troppo prolungato (stato di distress: stress “cattivo”, dannoso per la salute) e restiamo costantemente in attività “simpatica”. Ciò che è predisposto per rapide valutazioni e difese, diventa allora uno stato costante e da lì:
I muscoli restano in tensione troppo a lungo: ne derivano contratture e dolori…
Gli organi interni restano con poco flusso di sangue troppo a lungo: ne derivano coliti e gastriti…
Il cuore pompa a mille troppo a lungo: ne derivano tachicardie, affanno respiratorio, attacchi di panico…
La mente è impegnata nell’allerta troppo a lungo: la concentrazione e la memoria ne pagano il prezzo, l’insonnia ci fa compagnia…
…….
In breve, il SNA Parasimpatico non riesce più a tenere a bada il SNA Simpatico.
Il sistema ormonale perde l’equilibrio e innesca una reazione a catena senza fine: più sono in allerta più mi “tiro”, più mi “tiro” più mi stanco, più sono stanco più devo stare in guardia! Se aggiungiamo anche che, in questi momenti, consumiamo grandi quantità di ATP (la molecola che veicola energia al corpo) possiamo comprendere perché in situazioni di stress cronico ci sentiamo sempre stanchi e nessun sonno è mai abbastanza ristoratore.
In modo molto semplice abbiamo cercato di capire cosa accade dunque al nostro organismo quando siamo sotto pressione e perché gli stati d’animo e gli stati fisici si alimentino a vicenda.
Ed ora la grande domanda: che fare? E’ possibile stare meglio?
Per fortuna la risposta è SI! Per fortuna ci sono vari modi per uscirne. Per non arrivare ad avere disturbi estremi, dove occorre appoggiarsi alla via farmacologica (e quando serve il farmaco, serve e non si discute), sarebbe buona cosa puntare sulla prevenzione e sul mantenimento. Ascoltarsi, imparare a riconoscere i sintomi appena si presentano e affrontarli subito se è possibile, così da non arrivare mai a quel disturbo estremo!
Per imparare ad ascoltarsi in modo efficace, può essere d’aiuto apprendere alcune Tecniche di Rilassamento, tra le quali il Training Autogeno è la tecnica più nota e, in un certo senso, il capostipite (non a caso insegnare TA richiede un titolo specifico, rigidamente regolamentato dagli ordini, in quanto espone a dei rischi chi lo pratica, se non è stato debitamente preparato). Ci sono vari tipi di tecniche quindi (vedi anche Corsi di Rilassamento) emolte sono quelle valide, nelle tue scelte puoi quindi orientarti con alcuni criteri fondamentali:
ricorda che il Rilassamento inteso in senso medico e psicologico non è un momentaneo stato di benessere, ma un vero e proprio lavoro di ripristino dell’equilibrio tra SNA Autonomo e SNA Parasimpatico
soluzioni troppo rapide non sono efficaci: il SNA capisce solo un linguaggio lento e regolare
cose fatte al posto tuo non funzionano: sei tu con la tua costanza l’unico che può curare queste sintomatologie
guardati da false promesse e accertati di esserti affidato ad un professionista vero, soprattutto non affidarti a internet
E mentre impari ad essere autonomo nella regolazione dei tuoi sistemi, puoi farti aiutare nello sblocco delle situazioni già cronicizzate: contratture muscolari, disfunzioni viscerali e stati emotivi ingestibili meritano e necessitano di attenzione specalistica (vedi anche All’Adulto – Area Motoria, All’Adulto – Area Prevenzione, All’Adolescente – Area Prevenzione).
Accettare di non avere il controllo su tutto è un grande passo verso la quiete interna.
Spero che leggere queste righe sia stato “rilassante”:
sapere cosa ci sta accadendo e che si può fare qualche cosa per stare meglio, spesso ci offre già un beneficio.
Una mamma (che ringrazio moltissimo per lo spunto), dopo aver letto l’articolo “Un gioco da ragazzi o un lavoretto da bambini?”, mi ha invitata a spendere due parole sul gioco virtuale “così demonizzato”. Inizialmente ho risposto che avrei aggiunto una riga accanto al gioco del ragazzo-adulto, nello stesso articolo, ma riflettendo sugli ultimi studi, ho deciso di allargare un po’ i pensieri. E’ un dato di fatto che i nostri figli, sempre di più e sempre più spesso, sono in possesso o hanno il permesso di utilizzare tablet, smartphone e computer per giochi on-line e non. La domanda è se questo sia un bene o un male. Come per ogni cosa, la risposta e la virtù stanno nel mezzo: dipende cioè da quanto tempo e per quale motivo concediamo loro questo utilizzo.
Pro e Contro dello Spazio Virtuale
I CONTRO
Cominciamo a parlare dei “contro” perché sono le cose più note: un eccessivo impiego di strumenti tecnologici può avere, nel ragazzo e nel bambino, conseguenze psicologiche, fisiche e sociali.
Le conseguenze fisiche sono in parte abbastanza ovvie: l’aumento della sedentarietà e le ore di “reclusione” minano senza dubbio la crescita sana di un organismo in evoluzione. Meno noto è l’effetto che questi troppo prolungati esercizi hanno sui sistemi sensoriale e nervoso. Il senso della vista, ad esempio, può subire danni (soprattutto se gli schermi hanno luci di determinate frequenze) e se lo sforzo di convergenza si protrae per ore. A livello cognitivo e neurologico, la prestazione attentiva si abbassa per ogni cosa che non sia la richiesta del gioco e le aree corticali motorie iniziano a concedere ampie zone alla coordinazione del movimento del pollice, a scapito di una equilibrata partizione, frutto di secoli di evoluzione. E’ chiaro che ciò non succede in un attimo e che stiamo parlando di casi estremi, lì dove l’utilizzo del videogioco è quotidiano e troppo prolungato.
A livello sociale accadono principalmente due cose: da un lato un sempre maggior ritiro dalla “vita in piazza”, dall’altro una sempre maggiore ricerca di sensazioni forti e pericolose, specialmente da parte dell’adolescente. E’ stata per esempio dimostrata un’associazione tra l’uso prolungato di videogiochi violenti e Internet e la messa in atto di comportamenti aggressivi, sia a scuola che in contesti più ampi.
Si è constatata una riduzione dei comportamenti prosociali, fino a poter misurare elettrofisiologicamente che c’è un effetto di desensibilizzazione a livello cerebrale davanti alla violenza interpersonale (Anderson, Dill, 2000; Gentile e al. 2004; Chambers, Ascione, 1997; Bartholowe al, 2006; in Cattellino, 2012).
Altro effetto poco piacevole si ha sulle prestazioni scolastiche: non solo perché si sottrae tempo allo studio, ma anche perché i livelli di tensione e attività cui si è abituati fanno apparire noiose e lente le proposte scolastiche.
I casi di “abuso” di videogiochi, vengono trattato dall’OMS e dalle nuove classificazioni psicopatologiche, come NEW ADDICTIONS: vere e proprie dipendenze, alla pari di droghe o altro, spesso usati per nascondere stati depressivi e ansiosi.
E’ perciò necessario rivolgersi a terapeuti esperti se noi o i nostri figli non possiamo fare a meno di girare col cellulare in mano, se compulsivamente aspettiamo e guardiamo i risultati dei giochi, se ci disperiamo finchè non esce un nuovo livello. Tutto ciò vale anche per la conta dei LIKE sui Social, a cui si può perfino arrivare ad affidare una misura del nostro valore personale.
Homo digitalis, in che direzione va la specie?
I PRO
Ma vi sono dunque dei “pro”? Verrebbe da dubitarne dopo quanto appena letto. Invece ci sono, e ce ne sono parecchi.
Ciò di cui abbiamo appena scritto è da imputarsi all’uso ECCESSIVO di questi strumenti e alla QUALITÀ’ dei giochi scelti. Non vi è dubbio, invece, che un utilizzo moderato e controllato di alcune App abbia influenze positive sullo sviluppo cognitivo (per esempio: attenzione sostenuta, visione laterale, velocità di risoluzione dei problemi imprevisti) e sulla coordinazione visuo-motoria del ragazzo. Gli scienziati hanno più volte dimostrato che tra televisione e videogioco è da preferirsi il secondo, in quanto è richiesta una interazione e non solo una visione passiva.
Ma quello su cui vogliamo qui soffermarci, è quello di cui ci è stata chiesta un’argomentazione: l’utilizzo TERAPEUTICO del videogioco.
Facciamo solo degli esempi per capirci in modo semplice:
F. è un tredicenne con patologia motoria congenita ingravescente e invalidante. Fa fatica a stare in piedi, può uscire poco da casa. In questo caso, lo strumento tecnologico può diventare supporto, anziché ostacolo, alla socializzazione ed elemento di prevenzione per ricadute depressive a causa della solitudine forzata.
Se gli aspetti depressivi si fossero già instaurati, ecco il caso esempio di S., ventenne, che ha scoperto assieme al suo terapeuta che, nei momenti in cui l’angoscia la soffoca, può spegnere “quell’interruttore” ritirandosi per mezz’ora (questo è un tempo concordato tra lei e il terapeuta) in un mondo virtuale. Questo stacco dalla sua realtà interna dolorosa le permette di riaffrontarla con un respiro diverso.
M., ancora, è un ragazzo di 17 anni con autismo ad alto funzionamento. Ha un livello scolastico molto basso, paragonato per livello di apprendimento ad un bambino di 7 anni, eppure è in grado di progettare (ma non spiegare) un software se gli viene fornito lo strumento idoneo.. Non è un genio, è un Asperger cui è stato dato il giusto modo di esprimersi!
La conclusione è ancora una volta scontata, quindi: il male e il bene delle cose non sta nelle cose stesse, ma nell’uso che ne facciamo.
Sono assolutamente consapevole di aver trattato l’argomento in estrema sintesi e in modo molto incompleto, ma mi piaceva l’idea di cominciare a parlarne e sarei veramente contenta se questo blog potesse diventare occasione di scambio tra genitori o con i ragazzi stessi che hanno molto da dirci in merito.
A voi la parola, lo scambio, il reciproco sostegno…
Disegno fatto al PC da una bambina di 7 anni …creatività è bene, sempre
Chiunque lavori con i bambini nei più svariati ambiti possibili (dall’educatore al riabilitatore, sia esso terapista o terapeuta) conosce molto bene quanto il gioco sia importante sia per il bambino sia per la relazione condivisa con lui. Prima ancora di parlare di professionisti, potremmo dire che a nessun genitore può essere sfuggita l’attenzione e la dedizione che il proprio figlio riserva al gioco.
Giocare è un vero compito di crescita per il piccolo, è la palestra dove si forgiano i pensieri, si temprano i simboli, si sperimentano i ruoli. Quando qualcosa è facile siamo soliti dire che si tratta di “un gioco da ragazzi”: nulla di più inesatto a mio parere. Saper giocare richiede competenze via via crescenti e maturazioni neurologiche che, se non sono raggiunte, comportano un inevitabile ritardo di sviluppo intellettivo e affettivo. Il neonato, come ogni cucciolo, nasce con l’istinto del gioco, ma nei primi mesi di vita è il genitore che assegna un significato ai richiami ludici del figlio: è questa assegnazione a far sì che il bambino cominci a crearsi un repertorio di significati che può mettere in memoria, per poi usarlo per farsi capire. A mano a mano che il bambino cresce, cresce anche il gioco: si arricchisce di significati e competenze, passa da una prima fase prettamente psicomotoria (tutto passa attraverso il corpo, il contatto e il movimento) ad una fase simbolica (il “far finta di”) ad una fase astratta (giochi di regole e di società) che è quella che permane anche nell’adulto (gli hobbies, le varie forme di arte, lo sport… sono ciò che è diventato il gioco in noi). E’ quindi fondamentale diritto del bambino e del ragazzo avere tempi e spazi di gioco adeguati alla sua età, nonché qualcuno con cui giocare: mamma e papà prima, gli amici poi. Ma sempre occorre che ci siano degli occhi accoglienti che approvino quell’operato e autorizzino il piccolo uomo a sentirsi competente. Forse, la moda di questi ultimi anni, di condividere spesso qualcosa di sè sui social, risponde allo stesso bisogno: cercare occhi che approvino e ci facciano sentire competenti, sociali e socializzati. Cosa accade, allora, se per qualche motivo, biologico o esperienziale, il gioco perde attrattiva, i giocattoli non hanno mordente, il bambino non gioca? Ovviamente la risposta è molteplice, tante sono le cause tante sono le possibili risposte, e non è certo mia intenzione semplificare qui le cose fino a renderle banali. Tuttavia, ne faccio luogo di riflessione condivisa: se il bambino o il ragazzo (noi compresi) non vuole giocare, sta chiaramente esprimendo un disagio e la cosa non si può sottovalutare. Il terapista o il terapeuta (a seconda dell’ambito di gravità in cui ci stiamo muovendo) ha il delicato compito di riaprire le porte della fantasia di chi gli viene affidato. E’ quindi assolutamente necessario che il professionista sappia giocare davvero.
Chi stiamo aspettando?
E questa è la parte difficile! Il bambino sente se fingiamo: se non siamo con lui totalmente neppure lui ci concederà la sua intimità. Saper giocare davvero, significa lasciar andare la ragione, lasciar vivere il bambino non condizionato che è in noi… e ciò, davvero, non è sempre immediato, visto quanto abbiamo faticato per diventare “grandi”. E’ ovvio che, nel contempo, l’adulto deve restare adulto e condurre dolcemente per mano il suo compagno di avventura, oltre le terre del timore, nell’incantato bosco ove tutto è possibile. Il materiale, i giocattoli, a tal fine dovrebbero essere il meno strutturati possibile:
Vedi tre bottiglie bianche? Sbagliato! Sono tre cavalieri che difendono Roccarosa!
una sveglia è una sveglia, ma una scatola di latta può essere sia una sveglia che un cofanetto del tesoro. Quando abbiamo a che fare con bambini più grandi è ovvio che la proposta di gioco dovrà invece spesso assumere regole e strutture di qualche tipo. Se si gioca a Memory o a carte, per esempio, si dovranno seguire le regole di quel gioco mentre si lasciano uscire emozioni e confidenze. Ma a volte accade che, proprio in quell’attimo, la creatività fa il suo ingresso terapeutico e le carte diventano dischi volanti.
Qualcuno dei primi terapeuti della mente infantile disse qualcosa che suonava più o meno così: il gioco è, per il bambino, ciò che per l’adulto è il colloquio e i giocattoli sono le parole. E quando ciò non è possibile, si riparte da ancora più indietro, si riparte dal corpo e gli si chiede di poter sperimentare sensazioni, di esprimere e tollerare emozioni, salti nel vuoto e vorticose cadute… e tutto diventa metafora.
Campo di battaglia e giardino di sogni!
Buon gioco a ciascuno di noi, allora! Che le nostre parole siano sempre “colorate”!